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Diario della Grande Guerra - a cura di Daniele Furlan

La vita nelle trincee

mar 07 apr 15

Le trincee sono state uno dei simboli della Grande Guerra. Quando i vari governi europei decisero di scendere in campo, tutti erano convinti che si sarebbe trattata di una guerra veloce in cui era essenziale sfruttare il fattore temporale. Invece, dopo poche settimane, i diversi fronti europei si stabilizzarono ed iniziarono ad essere scavate centinaia di chilometri di trincee, dal nord della Francia fino all'Europa orientale, nell'attuale Polonia e nei Balcani. Questi lunghi corridoi, profondi poco meno di due metri, comparvero da subito anche sul fronte italiano, in pianura, sull'altopiano carsico e in alta montagna, in mezzo alla neve. Nonostante il Governo Salandra e il generale Luigi Cadorna avessero dimostrato uno straordinario ottimismo il 24 maggio 1915, la guerra assunse le stesse caratteristiche del resto d'Europa.
Nei musei all'aperto e negli itinerari che oggi si possono visitare, le trincee sono le tracce più significative di quanto successe tra il 1915 ed il 1918. In questo lungo periodo furono la "casa" dei soldati, il luogo dove i militari impegnati al fronte vissero per settimane (se non addirittura mesi) tra una battaglia e l'altra.
Tutto era difficile all'interno di una trincea. Durante il periodo bellico i soldati dovevano affrontare dei momenti durissimi in prima linea, in strutture più o meno provvisorie, con il costante terrore di essere prima o poi colpiti da qualche cecchino o dal ricevere l'ordine di prepararsi all'assalto. Esperienze che segnarono molti uomini per tutta la vita, come dimostrano i molti casi di malattie mentali sviluppate già durante la guerra o appena tornati nelle proprie case.
Sin dall'inizio la preparazione dell'esercito fu assolutamente insufficiente rispetto a quelle che erano le caratteristiche di questa guerra. Sia il Comando Supremo che il Governo non seguirono i consigli presenti nelle varie relazioni militari alleate e non badarono nemmeno a preparare i propri uomini ad un conflitto di lungo periodo. Certi che Trieste sarebbe stata conquistata nel giro di poche settimane, i soldati si ritrovarono con le sole dotazioni estive e con strumenti tutt'altro che moderni.
Molti soldati, nel primo anno di guerra, combatterono con in testa dei semplici berretti, ornamenti tipici del XIX secolo, che non potevano di certo fermare le pallottole sparate dalle trincee nemiche o dai cecchini. Nessuno poi, all'inizio, spiegò ai soldati italiani di restare accovacciati nelle trincee e di non sporgersi. Ancora più imbarazzante fu la mancanza di pinze tagliafili in grado di creare velocemente dei varchi tra i reticolati nemici, posizionati tra la prima linea offensiva e la prima linea difensiva. Più un soldato perdeva tempo in questa operazione, più probabilità c'erano di essere colpiti dai nemici.
I problemi erano numerosi anche quando le armi tacevano. Le scarpe erano del tutto inadatte per resistere al fango o al terreno pietroso del Carso o delle montagne. Nel giro di poche settimane si trasformavano in suole di legno a malapena indossabili e questo ovviamente provocava dei seri problemi ai piedi dei soldati. Le ferite erano molto frequenti così come i congelamenti, curati con lo stesso grasso che avrebbe dovuto servire per lucidare le calzature. Le borracce per l'acqua erano di legno (assolutamente anti-igieniche) mentre le tende per dormire (quando c'erano) erano inutilizzabili con la pioggia. Molto spesso i soldati furono costretti a crearsi degli alloggi di fortuna per la notte, in buche coperte da un semplice telo, in anfratti del terreno dove si dormiva gli uni attaccati agli altri per disperdere il meno calore possibile.
Uno dei grandi problemi durante la Grande Guerra fu quello dell'alimentazione sia per la popolazione civile che per i militari. Le famiglie nelle retrovie furono vittime di carestie e di malattie dovute a carenze alimentari gravi (come la pellagra) mentre il rancio dei soldati diventava ogni giorno più esiguo e scadente. La scarsa qualità era dovuta alla scelta di cucinare i pasti nelle retrovie e trasportarli durante la notte verso le linee avanzate. Così facendo, la pasta o il riso contenuti nelle grandi casseruole arrivavano in trincea come blocchi collosi. Il brodo si raffreddava e spesso si trasformava in gelatina mentre la carne ed il pane, una volta giunti a destinazione, erano duri come pietre. Scaldarlo una seconda volta non faceva che peggiorare la situazione, rendendo il cibo praticamente impossibile da mangiare.
In trincea ai rari momenti di sollievo fa da contrappunto il costante patimento fisico: la trincea con la pioggia diventa un mare di fango, con la calura estiva un forno senza riparo. Sacchetti, tende, coperte, abiti, s’inzuppano o si impolverano, non vi è alcuna possibilità di asciugarli o lavarli. Un insopportabile fetore di cadaveri in decomposizione, mescolato al tanfo dei rifiuti, dei materiali ammuffiti e marcescenti (paglia, resti di cibo, coperte…), impossibile da seppellire o bruciare, ammorba l’aria. Un’accozzaglia confusa e indistinta di resti umani, di fucili, di zaini, di indumenti, di tavole, di gamelle, ecc., che ingombra lo spazio fuori e dentro la trincea, costituisce l’universo visivo del soldato. Tutto è sporco, sventrato e insanguinato.
L’abbrutimento morale e fisico rendono precaria, dal punto di vista esistenziale, la distinzione tra vita e morte, sino al punto da ispirare al poeta Giuseppe Ungaretti, arruolatosi volontario nel 19º Reggimento di Fanteria della Brigata Brescia, il famoso verso con il quale in pochissime parole riuscì a descrivere esattamente la vita di un soldato al fronte: «Si sta come d’autunno sugli alberi le foglie.»
 
Lgrande guerra


news pubblicata il mar 07 apr 15