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Diario della Grande Guerra - a cura di Daniele Furlan

L'inizio di un anno sotto la dominazione austriaca

gio 25 giu 15

Le prime notizie della disfatta di Caporetto giunsero a Ponte di Piave la sera del 28 ottobre 1917; si trattava di notizie contraddittorie e frammentarie portate da qualche soldato o qualche cittadino reduce da Udine e dintorni. Le prime informazioni precise, che diedero le giuste connotazioni all’entità del disastro, si ebbero il giorno successivo, 29 ottobre 1917, provenienti da fonti fidate in quel di Oderzo. Nonostante gli ordini perentori emanati dalle autorità comunali e sostenuti dalle disposizioni prefettizie, le popolazioni della zona allarmate dalla situazione che si stava venendo a creare, dal 31 ottobre al 4 novembre, diedero vita ad una specie di esodo. Un immenso stuolo di profughi e di soldati si riversò sulla strada che da Oderzo portava a Treviso, nonostante le intemperie di quei giorni l’avessero trasformata in una grande pozzanghera che rendeva ancor più accidentato il triste cammino di quel convoglio di disperati.
Alla natura di quella fuga di massa non vi erano particolari vessazioni subite, ma semplicemente la previsione che l’esercito nemico dopo aver sfondato sull’Isonzo, avrebbe avuto vita facile nel fare lo stesso anche sul Tagliamento, e soltanto il Piave avrebbe potuto rappresentare l’ultimo baluardo difensivo oltre il quale respingere gli invasori, pertanto si rendeva necessario guadagnare la “Callalta” in direzione di Treviso. Quest’istintiva risposta da parte della popolazione fu propiziata anche dall’incertezza dimostrata dalle pubbliche autorità, che non emanarono nessun tassativo ordine di sgombero, seppur in quei giorni un eventuale sgombero sarebbe stato molto difficoltoso da effettuarsi, perché Ponte di Piave era attraversata da un flusso continuo di truppe, di abitanti dell’Opitergino-Mottense in fuga al di la del Piave e da tutti gli uomini dai 16 ai 60 anni richiamati dal bando Cadorna.
Purtroppo il caos generò anche spiacevoli episodi, in quanto la presenza dei Carabinieri si rivelò insufficiente a governare quella massa minacciosa che premeva per attraversare il ponte, ed ebbero luogo eventi con tragiche conseguenze: diverse persone furono travolte dal moto del fiume, altre perirono nel tentativo di attraversarlo a nuoto o con imbarcazioni improvvisate, e ben poco poterono fare i soldati presenti per nulla avvezzi ad operazioni di salvataggio in acque agitate come quelle del Piave in autunno. Il 3 novembre le autorità militari decisero di riservare il passaggio sul Ponte della Priula solamente alla truppa, con la conseguenza che molti profughi furono costretti ad affrontare un lungo viaggio sino a Ponte di Piave per attraversare il fiume in corrispondenza del nostro paese. In quell’occasione la massa di persone in atto di raggiungere la sponda destra del Piave assunse dimensioni impressionanti, al punto da rendere il passaggio sul fiume quasi impossibile, anche perché sull’altra sponda la folla che ingombrava la Callalta fungeva da tappo, e l’attraversamento venne permesso solamente ad intermittenza.
Ciò costrinse gran parte della popolazione di Ponte di Piave a trasferirsi nei paesi più interni della sinistra del Piave presso amici e/o parenti, nei distretti di Oderzo, di Motta di Livenza, di Portogruaro, di Portobuffolè, di San Giovanni di Motta ed in altre località della zona. Solamente un gruppo di 500 persone preferì riunirsi in località Grasseghella, che essendo discosta un po’ dal centro si presentava adatta per un primo rifugio, per una prima sicurezza dagli eventi funesti che già si prevedevano. Di fatto solamente una piccola parte della popolazione di Ponte di Piave attraversò il fiume cercando ospitalità nell’interno dell’Italia, mentre la maggior parte fu costretta alla profuganza nelle zone occupate. Bisogna ammettere che anche le pubbliche autorità rimasero in paese sino all’ultimo, accettando di allontanarsi solamente quando le pressioni dei comandi militari e la loro permanenza si resero del tutto insostenibili.
In quel momento di grave pericolo, pur nel marasma di malcontenti, imprecazioni e miserie, il Sindaco Milone Tommaseo-Ponzetta non lasciò nulla di intentato per sovvenire alle necessità venutesi a creare. In quell’epoca a Ponte di Piave mancava il segretario comunale, il cui incarico era disimpegnato in modo interinale da quello di Salgareda, ma in quei momenti di spavento e preoccupazioni lo stesso segretario dovette limitarsi a provvedere al suo Comune, perciò il sindaco si trovò da solo, assistito da qualche impiegato secondario e coadiuvato dal signor Francesco Loschi. Ciononostante si interessò del popolo e del clero, pubblicando manifesti invitanti a conservare la calma e, in pieno accordo con le autorità militari, alle quali dal 2 novembre dovette cedere i poteri, regolò i servizi per lo sgombero del paese, fornendo altresì ai sacerdoti che per disposizioni ecclesiastiche dovevano restare prigionieri, una specie di salvacondotto da presentare agli ufficiali nemici nei quali si dichiarava la loro qualità di ministri del culto. Si adoperò per mettere in salvo i registri e i documenti più importanti del Comune ed accettò di abbandonare la sua postazione solamente il 7 novembre, quando ormai l’attraversamento del fiume era stato proibito ai borghesi e sulla riva opposta si cominciavano ad erigere le prime opere per la resistenza. La sorte lo portò a vagare in varie città d’Italia, finché riuscì a fissare la sede del Comune di Ponte di Piave in quel di Siena, da dove continuò la sua opera in favore dei profughi.
D’altronde prima di lui se n’erano andati: il medico, dottor Giuseppe Rossi, richiamato fin dall’inizio della guerra in servizio attivo negli ospedali da campo, il suo giovane sostituto, dottor Gallo, che dopo Caporetto fu costretto ad abbandonare la condotta, la levatrice Maria Fregonese, obbligata a varcare il Piave, il maestro Rodolfo Spilimbergo, richiamato in seguito al bando Cadorna, ed il vecchio arciprete, Don Giuseppe Semenzin, che passò il Piave il 4 novembre 1917 assieme alla nipote Teresa Semenzin, maestra in Candolè di Salgareda. La casa arcipretale rimase abbandonata ma colma di vettovaglie ed ornamenti, i quali furono dispensati ai poveri prima dell’arrivo del nemico che vi trovò ben poca cosa da razziare.
Rimase in paese il giovane cappellano Don Pietro Zanetti, il quale oltre ad attendere alla cura della vasta parrocchia cui era stato destinato, si interessò pure di mettere in salvo tutti i documenti dell’ufficio subeconomale di Oderzo unitamente a diversi registri canonici. Purtroppo tutti questi incarti andarono perduti quando lo stesso Don Zanetti fu internato a Pavia di Udine.
Oltre al giovane curato, anche il signor Francesco Loschi decise di rimanere a sinistra del Piave quale prigioniero volontario, transitando dapprima a Pieve di Soligo, poi a Colle Umberto, dove grazie ai suoi modi ed alle sue competenze, riuscì a farsi apprezzare anche dalle autorità austriache e far del bene per la gente del luogo, ma nulla poté in favore dei suoi concittadini di Ponte di Piave dai quali rimase completamente separato. Fu quello uno dei periodi più brutti della storia di Ponte di Piave, un momento in cui tutto appariva perduto, e nel quale una grossa parte della popolazione, la più povera e bisognosa, si ritrovò interamente isolata da quelli che erano i suoi punti di riferimento a livello religioso, amministrativo e sociale.

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news pubblicata il gio 25 giu 15