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Da Caporetto alla battaglia del solstizio

lun 24 ago 15

Spesso i confini territoriali di due paesi contigui si incontrano alle periferie dei medesimi, ove si trovano le frazioni, che formano una specie di cintura che circonda il Comune capoluogo. Sotto questo aspetto Ponte di Piave e Salgareda rappresentano una curiosa anomalia, infatti i confini di Salgareda arrivano a costeggiare per un piccolo tratto la statale Postumia, lambendo così il centro cittadino di Ponte di Piave. Antecedentemente alla Prima Guerra Mondiale la situazione era praticamente opposta, in quanto il centro di Salgareda, e quindi anche la Chiesa, erano edificati a ridosso dell’argine del Piave, all’estremo sud del paese, più o meno ove si trovano la casa della famiglia Soldati ed il ristorante “Le Marcandole”, quindi era Ponte di Piave a lambire con i suoi confini il centro cittadino di Salgareda, mentre il luogo ove ora è ubicato il centro di Salgareda, e dove l’Amministrazione Comunale del tempo aveva già iniziato a costruire il nuovo edificio municipale, era chiamato località “Talponada”. A guerra finita anche la Chiesa venne ricostruita in tale località, e come logica conseguenza attorno sorse pure quello che sarebbe divenuto il nuovo centro cittadino.
Come apprendiamo dal libro «1917-1918 Un anno d’invasione e di soprusi», redatto dal Maestro Renzo Toffoli, appassionato di storia oltre che di musica gregoriana, arciprete di Salgareda durante l’ultimo anno della Grande Guerra fu Don Pietro Sartor, alle cui memorie il Maestro Toffoli si ispira per ricostruire gli eventi di quei giorni lontani. Anche Don Pietro Sartor, come il collega di Ponte di Piave Don Pietro Zanetti, si rifiutò di abbandonare il paese prima dell’arrivo dell’esercito invasore per rimanere accanto ai suoi parrocchiani in quel difficilissimo momento. Anche lui ebbe sentore della disfatta di Caporetto dai racconti dei soldati che passavano a salutarlo prima di rientrare al fronte dopo una licenza, oppure dalle cartoline che gli scrivevano dai luoghi di battaglia. Nelle loro parole, scritte o proferite verbalmente, egli intuì tutta la stanchezza per quasi tre anni di guerra di trincea, trascorsi patendo fame e freddo, martoriati oltre che dal nemico anche dagli ufficiali superiori, i quali si riservarono tutti i privilegi, compreso quello di scaricare sulla codardia delle truppe gli insuccessi sul campo, dovuti invece alle strategie fallimentari del Comando Supremo. Anche lui dovette assistere al passaggio delle lunghe tradotte di soldati italiani in ritirata oltre il Piave, ignorando le sollecitazioni prima, e gli ordini poi, che gli intimavano di fare lo stesso.
Attingiamo parti del racconto di Don Pietro direttamente dal libro del Maestro Renzo Toffoli: Stamattina mi sento oppresso e, per respirare un po’ d’a­ria fresca, vado istintivamente in cima all’argine del Piave. Quand’ecco accompagnato da un gruppo di militari, un tenente del Genio – aveva due stellette su ciascuna spallina – di statura men che ordinaria, secco, pallido, con il viso corto, due occhi pe­netranti fulminei con movimento deciso e gesto nervoso, mi ab­borda baldanzoso e, senza tante cerimonie, mi chiede imperioso: «Che cosa fa qua? Parta subito!» Io trasogno e rispondo: «Che modo di parlare è questo?». e l'ufficiale di rimando: «Lei deve partire e subito.» Don Pietro: «Come! Con chi e perché? Non sa che ho dietro le mie spalle tremila persone, delle quali devo rispondere? Non le abban­donerò!» «Domani il ponte sul Piave salterà in aria. – spiega l’ufficiale.» Ma la sorpresa più amara arrivò solo dopo: «Domani mattina dobbiamo far saltare il campanile.» Nonostante le sue proteste Don Pietro riuscì a ottenere solamente che il campanile non fosse fatto cadere sulla canonica. Ed infatti: «Sono le sette del mattino. Ho appena finito di celebrare la Messa. Esco di chiesa e vedo sull’argine del Piave molti soldati: sono ventinove, trenta con l’ufficiale del giorno prima. Sono addetti all’opera nefasta di far saltare il campanile, sono tutti indaffarati». «Non so come abbiano fatto. Però, in due ore il lavoro era compiuto.». «Il campanile all’altezza del primo pianerottolo si rigonfia addirittura e sprigiona un’ondata di vento. S’innalza una nube di fuoco.» «Il bel campanile si solleva dal suolo con un rombo terribile, secco, come una cannonata. Poi un orribile e assordante fracasso al suolo.»
Il giorno dopo il sindaco, Cav. Dalla Costa, partì per destinazione ignota, mentre Don Pietro fedele alla promessa di non abbandonare i suoi parrocchiani si mise a seppellire in una buca profonda arredi e registri della chiesa e provvide a trasferire il SS. Sacramento nella chiesa della frazione di Candolè. In quei giorni le strade erano affollate da un via vai di persone: bambini che piangevano, vecchi mezzi disperati e molti buoi o cavalli che trainavano carri colmi di masserizie e suppellettili che le varie famiglie cercavano di mettere in salvo presso parenti, conoscenti, amici, le cui abitazioni si trovavano nei paesi relativamente lontani dalla linea del Piave. Si trattava di un mesto peregrinare verso paesi posti più ad est della riva sinistra del Piave, quali: le frazioni di Campobernardo, Candolè, Arzeri, Campo di Pietra, ma anche Piavon di Oderzo, Cavalier di Gorgo al Monticano, lo stesso Gorgo al Monticano, Motta di Livenza. Un esodo che coinvolgeva non solo gli abitanti di Salgareda ma anche quelli provenienti da Roncadelle, Ormelle e Ponte di Piave.
L’arrivo dell’esercito austriaco si rivelò violento e disastroso per Salgareda, quanto lo fu per Ponte di Piave e tutti i paesi limitrofi. Gli abitanti, ritrovatisi profughi nell’arco di pochi giorni, consci del futuro incerto che li aspettava, cercarono di portarsi appresso galline, anatre, tacchini, conigli, maiali e mucche, divenute le uniche fonti di sostentamento rimaste loro a disposizione. Ciò nonostante, coloro che ebbero la sfortuna di imbattersi nei soldati nemici, vennero depredati immediatamente di questi animali domestici, spesso uccisi, scuoiati ed arrostiti seduta stante, dando mostra dei peggiori istinti che l’animo umano può esternare in situazioni di guerra. Don Pietro Sartor, nato a Segusino, fu un uomo devoto a Dio e generoso con i suoi parrocchiani, ma anche pratico ed autorevole, in grado di mediare per evitare violenze com’è d’uopo attendersi da un sacerdote. I suoi sermoni probabilmente non furono sempre raffinati e ridondanti, ed ancor di più in quei giorni nefasti il suo carattere genuino ed istintivo gli fece uscire di bocca qualche maledizione di fronte alle bestialità alle quali dovette assistere. Rischiò la vita per tornare a prendere sua sorella rimasta sola in canonica quando questa fu occupata dagli austriaci, e non fu in grado di trattenersi quando vide la Chiesa di Busco trasformata dagli austriaci in un mattatoio.
Purtroppo di fronte allo spettacolo degli abiti talari indossati dai militi austriaci come grembiuli da cucina, insozzati dal sangue degli animali sgozzati, ebbe una violenta discussione con un ufficiale, e fu messo in stato d’arresto nella chiesa di Candolè con l’accusa di essere un traditore ed una spia al soldo del Regio Esercito Italiano, guardato a vista da due soldati. Don Pietro fu un uomo semplice, e semplice fu il piano che ideò per tornare libero: con la complicità di una famiglia del luogo i suoi carcerieri vennero distratti quel tanto che bastò a Don Pietro per liberarsi e, profittando del passaggio di un gruppo di profughi in fuga da Ponte di Piave, per mescolarsi a loro e scomparire alla vista dei suoi carcerieri. L’ufficiale austriaco venuto a conoscenza della sua evasione andò in escandescenze, ed oltre a punire severamente i due inetti guardiani, diede ordine di catturarlo ad ogni costo, tant’è che essendosi sparsa la voce di un suo possibile riparo in quel di Piavon, Don Pietro fu costretto a cambiare i suoi piani ed a rifugiarsi a Fossalta Maggiore, ove si trovavano già in profuganza parecchie famiglie di Salgareda per un totale di qualche centinaio di persone.
A Fossalta Maggiore giunse assieme alla famiglia Mazzola, poco meno di una trentina di persone, il cui capofamiglia fu ben lieto di offrire ospitalità a Don Pietro, nonostante la casetta a due piani loro assegnata fosse già troppo piccola per contenerli tutti. Dopo aver incontrato l’arciprete di Fossalta Maggiore Don Costantino Stella, che a sua volta offri ospitalità a Don Pietro, pur avendo la canonica invasa dagli austriaci, Don Pietro si ritrovò a dormire presso l’abitazione di un certo Serafin che aveva accolto nel suo granaio una cinquantina di profughi di Salgareda e si ritrovava incapace di gestirne le intemperanze. Ma tutto questo fu ben poca cosa rispetto a quello che sarebbe accaduto nei mesi a seguire, quando pidocchi, fame ed epidemie cominciarono a funestare sia i profughi che i soldati, così che il comando austriaco cominciò a decretare le prime deportazioni a Palazzolo dello Stella e Sedegliano. Lo stesso Don Costantino fu inviato a fare il parroco ad Ariis di Rivignano, mentre Don Pietro, che avrebbe voluto seguire i suoi parrocchiani, venne suo malgrado trattenuto a fare il parroco di Cavalier, ove sino alla fine della guerra, si trovò a gestire la difficile ed innaturale convivenza fra esercito invasore e popolazione locale.

don pietro sartorchiesa salgareda



news pubblicata il lun 24 ago 15