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Una profuganza anomala

ven 04 set 15

A seguito della “rotta” di Caporetto vi fu l’afflusso di centinaia di migliaia di profughi friulani e veneti nella penisola e si creò una vera e propria emergenza nazionale alla quale il governo provò a rimediare facendo nascere l’Alto Commissariato per i profughi di guerra. Istituito presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri aveva il compito di coordinare l’assistenza ai profughi in tutto il territorio del Regno d’Italia. Purtroppo la mancanza di efficaci poteri esecutivi del nuovo organismo, e l’azione autonoma e spesso discordante dell’apparato periferico dello Stato, vanificarono gli sforzi di quanti cercarono di rendere l’opera di assistenza adeguata ai bisogni dei profughi, e alle attese che su di essa erano state riposte.
A differenza di quanto avvenne negli imperi centrali, in Italia non furono costruiti dei grandi campi profughi organizzati, ma la modalità più comune di collocamento degli evacuati fu invece il raggruppamento in colonie di piccola o media dimensione, composte da qualche decina a qualche centinaio di persone, utilizzando edifici già adibiti a caserme, conventi, scuole, eccetera. Quelli rimasti esclusi dalle colonie furono dispersi sul territorio in piccoli gruppi, ai quali provvidero i comuni o altri enti, soprattutto di natura benefica, investiti formalmente dal governo centrale di tale compito ma senza aver ricevuto disposizioni ben precise. In entrambi i casi questo fece si che i criteri assistenziali fossero molto diversificati fra di loro: nelle colonie la soluzione maggiormente adottata contemplò il sostentamento in natura, ovvero l’offerta di vitto e alloggio, mentre nel caso dei piccoli gruppi dispersi sul territorio fu invece adottata la soluzione che prevedeva la distribuzione di un sussidio attraverso il quale i profughi potessero provvedere al proprio mantenimento. Ma non mancarono neppure i sistemi misti, nei quali ad esempio ai profughi veniva garantito l’alloggio contemporaneamente alla corresponsione di un sussidio per il vitto.
Quel che è certo è che mancò una pianificazione nella gestione del fenomeno, poiché anche a quel tempo la politica, così come sta facendo ai giorni nostri seppur per migrazioni di diversa natura, adottò soluzioni dettate dell’emergenza del momento, basate sulla disponibilità di alloggi in questa o quella località. La conseguenza di queste lacune organizzative fu di veder disgregate sul territorio non solo le medesime comunità di appartenenza, ma spesso anche gli stessi nuclei familiari, mescolando invece diverse etnie, con diversi usi e costumi e diversi linguaggi, o addirittura mescolando profughi di guerra con internati per motivi politici o sospetti d’altro tipo. Tutto ciò contribuì a far percepire queste babeliche colonie con estrema diffidenza da parte delle popolazioni locali, e ad alimentare nei loro confronti pregiudizi e paure d’ogni genere, primo fra tutti il timore che questi insediamenti potessero essere fonte di turbamento delle abituali relazioni sociali. Venne resa assai comune la sgradevole assonanza fra profugo ed internato, rendendo necessarie di volta in volta attente analisi per chiarire la posizione della persona alla quale si faceva riferimento. Le diverse forme di erogazione del sussidio contribuirono ancor di più ad accentuare timori e maldicenze; sia i profughi che i comitati assistenziali avrebbero preferito la corresponsione diretta del sussidio, dato che le altre modalità si prestavano a speculazioni a loro danno da parte di appaltatori ed intermediari. Purtroppo anche in questo caso è fin troppo facile trovare un’assonanza con i giorni nostri.
Un altro fattore che contribuì a determinare differenze e diffidenze fu la questione attinente la possibilità dei profughi di accedere al mondo del lavoro. Dando per scontato che la maggioranza era costituita da soggetti inabili a praticarlo (donne, bambini, anziani o disabili), per gli altri oltre che l’opportunità vi era anche la necessità di essere impiegati in svariate occupazioni, poiché quasi tutti gli uomini che prima vi attendevano erano stati spediti al fronte. Ma anche in questo frangente la disorganizzazione dovuta alla mancanza di un piano organico ebbe la meglio: nelle regioni del Nord come Piemonte e Lombardia, già allora più industrializzate, i tassi di occupazione dei profughi raggiunsero percentuali del 30%-40%, percentuali che diminuivano sensibilmente nelle regioni meridionali ove la maggior fonte di reddito era determinata dall’agricoltura. Pertanto capitò spesso di trovare comunità, che per vocazione geografica, storica o economica, erano portate al lavoro in fabbrica, collocate in realtà territoriali prettamente agricole, e comunità votate all’agricoltura collocate nelle grandi città anziché nelle campagne circostanti.
Comitati ed enti gestori dell’assistenza praticarono pressanti inviti ai profughi affinché si cercassero un’occupazione, arrivando in molti casi a fungere l’opera di intermediari nel collocamento. In alcune colonie, le più grandi e meglio organizzate, vennero creati dei laboratori interni che non solo garantivano lavoro ai profughi ma contribuivano anche alle spese di gestione delle colonie stesse. Questi agglomerati di persone divennero anche naturali luoghi di reclutamento di manodopera per alimentare le attività economiche esercitate nei territori limitrofi. Molti profughi preferirono esercitare questa opzione perché dette loro la possibilità di uscire dalle colonie, conquistare condizioni di vita migliori o quantomeno non condizionate dalle regole a volte rigide della vita in comune. Per non scoraggiare tale pratica comitati ed enti gestori dell’assistenza preferirono solamente ridurre, e non eliminare del tutto, il sussidio a coloro che trovarono un lavoro, ma nello stesso tempo tale riduzione venne applicata anche agli abili al lavoro non occupati in modo da incentivarli alla ricerca di un’occupazione.
Poco dopo la rotta di Caporetto infatti il governo si trovò ad affrontare una situazione di gravissima emergenza determinata dalla grossa mole di perdite di risorse umane ed economiche, al punto che emanò una serie di misure culminate nel Decreto Luogotenenziale del giugno 1918 il quale disponeva la revoca del sussidio per tutti gli abili al lavoro dai 12 ai 60 anni, nonché la cessazione di ogni altra forma di beneficenza nei confronti dei profughi. Un decreto che scatenò una ridda di proteste a causa delle quali l’entrata in vigore del provvedimento venne posticipata all’esito di un censimento che avrebbe dovuto determinare esattamente numero e status sociale di ogni persona percettrice del sussidio. Anche in questo caso sembra di leggere una qualsiasi cronaca dei giorni nostri, ma se a quel tempo la cessazione del conflitto pose fine alle lungaggini della burocrazia italiana, ancora non si vede alcuno spiraglio per la situazione attuale vissuta dall'Italia e dall'Europa in genere.

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news pubblicata il ven 04 set 15