Piazza Garibaldi 1 - Tel. +39 0422 858900

PEC protocollo.comune.pontedipiave.tv@pecveneto.it

Contrasto: a
Testo:
a a a

News

La Battaglia del Solstizio

mer 07 ott 15

Condizioni e strategie degli eserciti contrapposti
Da parte italiana la scelta di sostituire Cadorna con Armando Diaz si rivelò azzeccata: il nuovo comandante dimostrò, a differenza di Cadorna, una grande sensibilità e attenzione per la condizione delle truppe: innanzitutto decise di porre fine alla scriteriata tattica degli assalti frontali, serviti soltanto a distruggere il morale dei soldati, e di attuare una tattica attendista, volta a risparmiare il maggior numero possibile di vite umane: netta fu la diminuzione delle perdite, (150.000 nel ’18, tra morti e feriti, contro le 260.000 del ’15, le 420.000 del ’16 e le 500.000 dell’infausto 1917), tanto che il peggior nemico di quell’inizio 1918 non fu l’esercito austriaco ma la malaria: in un anno fra i due eserciti ne vennero colpiti 280.000 combattenti. Inoltre nei ranghi venne adottata una nuova disciplina: i soldati furono trattati in maniera più umana, resi partecipi degli eventi della guerra e della vita del paese mediante adeguati strumenti di informazione, e trattati come cittadini, seppur in divisa grigioverde. Le licenze e i permessi agricoli vennero accordati più di frequente, il rancio iniziò ad essere più abbondante, fu garantito il riposo nelle retrovie, dove vennero anche istituite le “Case del soldato alla fronte” di don Giovanni Minozzi. Ai soldati venne attribuita un’assicurazione (seppur modesta) in caso di morte, e un aumento del soldo giornaliero anche se ancora numericamente improponibile, se raffrontato a quello di un operaio impiegato nell’industria bellica. Fu attuata pure una propaganda capillare e altamente persuasiva, che promise una ricompensa, tra l’altro poi in parte disattesa, come quella di assegnare le terre dei latifondi ai reduci. Tutto questo contribuì a risollevare le sorti di un esercito che dopo la disfatta di Caporetto era prossimo alla liquefazione e che invece, ricostituito in tutta la sua vitalità e potenziato dai rinforzi alleati, sembrò finalmente in grado di contrastare l’avanzata nemica. Dopo la ritirata dell’ottobre 1917, dai campi di raccolta popolati da un esercito allo sbando, vennero ricostituiti oltre ai battaglioni di alpini e di bersaglieri, anche 104 reggimenti di fanteria, 47 battaglioni complementari e 812 compagnie mitraglieri, i quali furono dotati di un adeguato armamento ed equipaggiamento. L’industria italiana lavorò a pieno ritmo, arrivando nel giugno 1918 ad avere in funzione 3.700 stabilimenti, di cui 1.900 ausiliari per decreto ministeriale, ossia con la propria direzione civile, ma con tutto il personale soggetto alla giurisdizione militare. All’artiglieria erano rimasti dopo Caporetto 3.986 pezzi (dei quali 500 consegnati dalla Francia e 300 dall’Inghilterra), incrementati però da diverse centinaia di altri pezzi che la Società Ansaldo aveva costruito di sua iniziativa prevedendo anticipatamente le future ordinazioni del Ministero della Guerra. L’artiglieria poté quindi venir da subito potenziata con nuove produzioni, tanto che si arrivò ad allestire 22 reggimenti da campagna (188 batterie), 80 batterie pesanti campali, 91 batterie d’assedio, 93 da montagna e 75 di bombarde. La Fiat decuplicò i dipendenti per costruire migliaia di autocarri e anche l’aviazione passò dai 198 aeroplani in forza alla fine del 1917 ai 556 che furono impiegati nella battaglia del giugno 1918. Ma oltre a rinforzare i suoi organici, l’esercito italiano si propose di attuare nei futuri scontri una nuova tattica di combattimento basata su agili unità in stretta collaborazione con bombarde e batterie d’artiglieria, in modo da conseguire migliori risultati sul campo di battaglia e diminuire largamente le perdite. In questo contesto assunsero particolare importanza i plotoni degli “Arditi”, che rispondevano direttamente al comando reggimentale, ed erano composti dai soldati più abili ed audaci di ogni corpo, specialisti negli assalti all’arma bianca, ossia armati solo di baionette e pugnali, ma anche di bombe a mano e pistole mitragliatrici.
A differenza di quanto stava accadendo in Italia, con l’avvento del 1918, la situazione dell’esercito austroungarico cominciò a peggiorare per una critica penuria alimentare e per l’esaurimento energetico necessario alla produzione bellica. Per dar da mangiare ai propri soldati, l’Austria affamò non solo le popolazioni veneto-friulane invase, ma anche quelle del suo vasto impero che risposero con tumultuose sommosse e rivolte. Ciò ebbe negative conseguenze anche sul morale delle truppe al fronte: le diserzioni crebbero vertiginosamente soprattutto tra i Cechi e i Romeni, mentre nella Honved ungherese si fece strada la frangia separatista. Nella primavera del 1918 il Governo di Vienna si rese conto dell’assoluta necessità di rinsaldare l’unione dei popoli dell’Impero, ed assunse la consapevolezza che soltanto la vittoria finale sull’Italia avrebbe potuto dare quel risultato. Conscio che ormai in gioco non vi era solo la vittoria, ma la sopravvivenza della stessa Corona, l’Imperatore Carlo I ordinò al suo Stato Maggiore di disporsi alla nuova battaglia con l’animo da “ultima spiaggia”. Il piano di attacco concepito dai vertici dell’esercito austriaco, e che nelle intenzioni avrebbe dovuto avere inizio nella primavera del 1918, venne modificato più volte a causa dei personalismi dei comandanti di Gruppi d’Armata, cosicché la versione iniziale proposta nel marzo del 1918, e che avrebbe dovuto concludersi entro maggio dello stesso anno con il crollo militare dell’Italia, venne approvata in ritardo anche dallo Stato Maggiore tedesco, i cui vertici comunque si raccomandarono di incominciare l’offensiva al più presto possibile.
L’offensiva prevedeva un attacco su un fronte di 140 km, praticamente dall’Astico al mare, e consisteva in un’azione a tenaglia che si sarebbe concretizzata in tre diverse operazioni: da un lato “l’operazione Radetzky” nella quale sarebbe stata coinvolta all’ala destra la XI Armata comandata dal generale Conrad, ed il cui compito sarebbe stato di conquistare Vicenza, partendo dall’Altopiano dei Sette Comuni; dall’altro lato “l’Operazione Albrecht” nella quale sarebbe stata coinvolta  la V Armata comandata dal generale Boroevic che avrebbe tentato di conquistare Treviso passando il Piave. L’offensiva avrebbe dovuto essere preceduta di due giorni dall’operazione “Lawine” (in italiano “valanga”), da parte di 2 divisioni della X Armata di Conrad, con obiettivo Edolo in Val Camonica. Forti dell’esperienza di Caporetto, Diaz e i suoi vice Badoglio e Giardino, diedero il giusto peso alle informazioni ricevute dai disertori austriaci ed ai dispacci trasmessi con i piccioni dagli infiltrati oltre il Piave, e venendo a conoscenza con esattezza dove e quando il nemico avrebbe attaccato, ebbero modo di predisporre più linee di difesa e divisioni di riserva pronte a tamponare le eventuali falle nel fronte provocate dalla prima ondata d’urto. Dall’altra parte i comandanti austriaci percepirono che si trattava dell’ultima decisiva battaglia: dopo anni di guerra sul fronte russo, sul Carso e nell’ostile Veneto, chiesero ai loro soldati uno sforzo ultimo ed estremo; fecero leva sulla loro connaturata disciplina, convinti di avere buon gioco come sull’Isonzo e di trovare, con la vittoria, magazzini colmi di vettovaglie.
Il 13 giugno sul Tonàle-Valcamonica, gli Austriaci diedero il via all’operazione “Lawine”, il cui scopo era diversivo, ma questa fallì completamente, poiché i reparti delle divisioni austriache, il 13 e il 14 giugno, cozzarono invano contro le linee tenute dagli alpini avendo ingenti perdite. La data di sabato 15 giugno 1918 alle 3:00 non fu considerata certa presso tutte le armate, e anche l'alto comando italiano non diede l'ordine per la contro preparazione d'artiglieria prima di quell'ora, quando avrebbe dovuto iniziare il fuoco dell'artiglieria austriaca. Tuttavia ricordando la brutta lezione di Caporetto alcuni comandanti d'armata, per iniziativa personale, ordinarono alle proprie artiglierie di precedere quelle nemiche. Fu così che alle ore 2:30 del 15 giugno i 1425 pezzi della sesta armata, tra cui vi erano anche batterie inglesi e francesi effettuarono un violento fuoco sui luoghi di radunata delle fanterie imperiali, dando così inizio alla Seconda Battaglia del Piave che D’Annunzio avrebbe battezzato come “Battaglia del Solstizio”.
 

Grande Guerra

 



news pubblicata il mer 07 ott 15