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Traiamo spunto dal libro “1917-1918 un anno di invasioni e di soprusi” di Renzo Toffoli: «Era dal mese di marzo che si diceva che i Tedeschi avrebbero fatto quanto prima una grande offensiva, ma ormai la gente non ci credeva più, mentre le voci, in proposito, si intensificavano. Da un po’ di giorni a quella parte si vedevano arrivare nuove truppe ben equipaggiate, fresche e allegre. La popolazione però diceva: “Sono morti di fame! Non sono più capaci di andare avanti e cederanno. L’offensiva non è possibile.”» La voce narrante è quella di Don Pietro Sartor, il quale prosegue il suo racconto riportando uno scambio di battute da lui avuto con il famoso Feldmaresciallo Svetozar Boroevic von Bojna, di nazionalità croata, comandante supremo delle armate dell’Isonzo, che egli ospitava forzatamente nella sua canonica. Dalle sue parole si evince come Don Pietro Sartor non sapesse esattamente l’identità del generale che stava ospitando, infatti così prosegue il suo racconto: «Il Generale che da quattordici giorni abita nella mia abitazione, un certo Boroevič, croato, è nella sala d’ingresso della canonica e sta leggendo il Tageblatt (giornale) e vedendomi uscire dalla mia stanza da letto, mi dice in latino: “Dunque domani cominceremo l’offensiva contro gli Italiani.”» E prosegue: «“Domani, caro reverendo, andremo a fumare una sigaretta a Treviso.”» Quando Don Pietro prospetta un altro epilogo da quello dato per certo dal generale, quest’ultimo ribatte: «“Credi forse che gli Italiani possano resistere a noi?” Don Pietro gli ricorda le vittorie riportate dall’esercito italiano durante le battaglie sull’Isonzo, provocando la reazione imperterrita del suo interlocutore: «”Si, ma in undici offensive sono avanzati forse di cinque chilometri. Noi, invece, con la prima offensiva dall’Isonzo siamo arrivati al Piave e con la seconda arriveremo al Po e poi a Roma.”» Continua così l’Arciprete di Salgareda: «Non rispondo, taccio. Mi invade un sentimento di dolore, di disperazione, direi, per la mia Patria: Treviso, Venezia, Padova, le nostre belle città cadere in mano a tanto barbaro odio! Un altro sentimento e questo di rovina: continueremo a morire di fame!» Mentre così descrive la notte del 15 giugno: «Per tutte le strade silenzio mortificante. Ordini severi di stare ritirati in casa. Non si vede un militare girare per le vie. Entro in canonica. Il generale austriaco era fuori e non rientrò quella sera, né durante la notte. Entro nella stanza e regolo il mio orologio con il suo, posato sopra un comodino, aspettando il momento dell’offensiva. È proibito tenere il lume acceso, ma io ho un moccolo di candela dietro una coperta che mi permette di leggere e di vedere, sull’orologio, quanto è lunga l’agonia. Mi sdraio sul letto fantasticando, agitandomi, sognando. Che incubi! A mezzanotte mi sveglio: mancano ancora tre ore. Poi sono le due e cinquant’otto minuti: il cuore mi batte sempre più forte! Cinquantanove minuti: tutto tace. Le tre: pum! Un colpo infernale di un grosso calibro sparato dal bosco di Cavalier, dà il via all’inferno di fuoco che si scatena da Eraclea fino a Grappa. Con sprazzi rossigni, più o meno alti e un rumore formidabile che fa tremare la canonica, come fosse sopra una palla di gomma. Balzo giù dal letto, mezzo vestito corro sulla soglia della canonica, al buio pesto.» [È storicamente riportato da più fonti che il Feldmaresciallo Boroevič, alle ore tre di notte del 15 giugno, si trovasse nella cella campanaria del campanile di Oderzo per seguire l’inizio del fuoco di preparazione delle artiglierie austriache per la battaglia del Solstizio.] «Il primo colpo di cannone, quale segnale di inizio dell’offensiva, venne sparato da un grosso calibro (la grande Bertha da 420 mm) posizionata nel bosco di Cavalier. Lo spavento terrorizza i paesani, che sento gridare, strillare, piangere forte! Il rombo dei cannoni continua, si fa sempre più insistente. Chiudiamo la porta della canonica. Rientro in camera, mi getto sul letto, mi copro il capo e prego la Madonna e le anime sante del Purgatorio. Alle quattro e mezzo il cannone italiano si fa sentire più rado, alle cinque tace. Infatti, il rombo del cannone italiano si distingue molto bene da quello tedesco. Questo, in partenza, emetteva un colpo secco, come la scarica di un fulmine, che rapido giù piomba, invece, quello italiano, in arrivo era come il fragore impetuoso di un tuono.» I primi risultati dell’offensiva del Solstizio si videro sin dal giorno dopo l’inizio dell’offensiva, che procurò all’Austria-Ungheria qualche risultato immediato con l’occupazione di buona parte del Montello e di significative teste di ponte nella destra Piave. Nel basso Piave la più profonda penetrazione venne registrata a Monastier e a Meolo il 19 giugno, ma da quel giorno iniziò la controffensiva italiana che in pochi giorni ricacciò oltre il fiume gli austroungarici. Il 24 tutto era ormai concluso, senza che nessuna conquista territoriale fosse stata realizzata dagli eserciti degli imperi centrali, che probabilmente in quell’assalto avevano riposto tutte le loro residue speranze di vittoria e di conclusione del conflitto. Ma il libro di Renzo Toffoli ci regala anche un episodio curioso accaduto in quei giorni, che Don Pietro Sartor così descrive: «Siamo ai primi di luglio del 1918 e l’offensiva sul Piave è già fallita. Gli italiani hanno resistito e i crucchi non hanno potuto passeggiare in piazza san Marco a Venezia. Un pomeriggio, verso le sedici, il generale Boroevič sta leggendo, in sala d’aspetto della canonica. Appena mi vede, depone il giornale e, manifestatamente contrariato, infastidito, mi dice, nel solito latino: “Gli Italiani, nel rubare, sono i maestri del mondo intero, vuole sapere, reverendo, che cosa ha fatto ieri un aviatore italiano? Vestito da aviatore germanico del trentasettesimo stormo da caccia, si cala, con un piccolo apparecchio austriaco, a Chiarano, nel prato antistante la villa Contarini. Un nostro tenente gli intima l’alt! Egli si avvicina e, in perfetta lingua tedesca gli dice: “Scusi, ho inseguito un aeroplano italiano, che, credo, sia caduto presso Venezia. Poi, preso di mira dalle batterie antiaeree nemiche, ho ripiegato sopra il nostro campo di aviazione. Speravo di raggiungere il Prà dei Gai a Portobuffolé, ma ho dovuto atterrare qui per mancanza di benzina. Pregherei di rifornirmi ed essendo amico del tal e del tal altro aviatore, vorrei recarmi al campo di aviazione per salutarli.” In un momento il prato è pieno di curiosi civili e di militari. Il finto aviatore germanico sale su un nostro carro di provvigioni, insieme con il tenente dei gendarmi. Racconta mille bravure compiute dal suo aeroplano sul Grappa. Giunto al campo di aviazione mostra i suoi documenti, che sono tutti in regola. Poi insieme con alcuni alti ufficiali, visita il campo, finché non si ferma davanti ad un caccia nuovissimo, speciale, leggerissimo, invenzione unicamente tedesca. I meccanici, con il pilota, provano i motori, che cantano. A quel briccone salta la voglia di provarlo anche lui con il pilota. Questi lo istruisce circa i movimenti e vedendo che ha gran desiderio di provare l’apparecchio, un vero gioiello, ne parla al Colonnello comandante, che concede il permesso. Quella canaglia sale sull’aereo, compie alcuni giri intorno al campo, poi s’innalza un po’ di più e infine prende quota. Ad un certo punto lascia cadere una bandierina tricolore, che teneva nascosta sotto la giubba, e fugge e prima che i telefoni potessero avvertire le batterie antiaeree, lui era quasi sopra il Piave. Non le dico, reverendo come siamo rimasti! A tutti il fatto pare inspiegabile. Io avevo messo sentinelle a custodia di quell’aeroplano, che è realmente invenzione germanica. Sentita la cosa, non volevo persuadermi, ma ieri sera un tenente, venuto a prendere quell’aereo, me l’ha confermata.”» Un episodio che ci insegna come ha volte le guerre si vincono non solo grandi eserciti e grandi armamenti, ma anche con un po’ sfrontatezza e di furbizia, in questo caso tipicamente italiche.