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La Battaglia del Solstizio

mer 09 dic 15

STORIE DI ORDINARIO EROISMO. IL BERSAGLIERE PIETRO MARTINO CAROZZANI


Da una ricostruzione della Battaglia del Solstizio effettuata da Carlo Dariol con particolare attenzione al Basso Piave, traiamo il racconto dell'eroica avventura occorsa al bersagliere Pietro Martino Carozzani , vicino alla foce del Piave in quel di Cortellazzo:
«Comparve saltellando come un folletto tra i filari delle viti, la giubba troppo larga serrata in vita dal cinturone. Era appena spuntato il sole. L’eco del cannoneggiamento notturno sopra Cortellazzo, dove c’erano i Fanti di marina, s’andava spegnendo.
Il bersagliere veniva avanti veloce, con andatura di mimo meccanico, il fez cremisi che gli allungava la testa, facendola assomigliare ad un oblungo frutto maligno. Ogni ventina di metri si fermava ed attendeva che il fruscio dei suoi passi venisse assorbito dall’aria fina, per udire un respiro, un ansimo, un lamento. La notte prima gli austriaci avevano bombardato Cortellazzo con i grossi calibri, ma era un diversivo, aveva detto il Tenente. Era una guerra diversa dal San Michele, dove era stato ferito. Là si andava all’assalto allo scoperto, con gli austriaci che tiravano con le mitragliatrici fino a far scoppiare le canne roventi. Non avevano nemmeno il tempo di sostituirle, altrimenti i nostri gli erano addosso con le baionette. E nove volte su dieci, i nostri arrivavano lo stesso, e si buttavano come furie dai bordi delle trincee e lì, si piantavano con tutto il peso del corpo, riprendendo fiato, supini, sui corpi dei morti e dei moribondi. Dopo, quando gli osservatori austriaci vedevano coi binocoli che il caposaldo era perduto, abbassavano il tiro delle artiglierie ed allora veniva l’ordine di ripiegare. Col cuore che scoppiava, con i polmoni roventi, i nostri rientravano alle loro posizioni, correndo sui compagni uccisi nell’assalto, sgambando qua e là alla disperata, fra i crateri delle granate. Dio quanti morti! Il San Michele era stato il cimitero del Quarto, ma qua sul Piave la guerra era diversa, quasi un fatto personale. Si passava il fiume in pochi, di notte e ci si dava la caccia nel buio più fitto, una volta di qua ed un’altra di là, Austriaci, Ungheresi, Cechi contro Italiani. Le mitragliatrici tiravano a vuoto, brevi raffiche nell’oscurità, rabbiose, indispettite, ma inutili. Ora ci si ammazzava in silenzio, corpo a corpo, con le armi bianche. I fucili di notte non servivano, anzi erano d’impaccio. Ed infatti neanche il bersagliere ne aveva. Solo la baionetta nel suo fodero grigioverde, gli batteva il fianco mentre correva.
Ma dov’era Tibor? Tibor, chissà cosa significava quel nome, udito sussurrare mille volte nelle notti di peggior massacro per i nostri. Ed in quale maledetta lingua dell’impero di Cecco Beppe? Tiberio, forse. Tibor era l’honved (il soldato) ungherese, grande come il gigante Golia, forte come un toro, che nelle notti di scuro di luna, passava il Piave all’altezza di Fossalta, su una barca, con una squadra mitraglieri o mortai leggeri. E mentre gli altri tiravano a casaccio sui nostri, che stanchi morti continuavano a dormire con la faccia appoggiata alla canna del fucile, lui scivolava dietro le nostre linee e faceva strage con la sua mazza irta di chiodi. Ma quella notte Tibor aveva pescato un bersagliere che era stato sul San Michele. Tre anni di guerra lo avevano ridotto a dormire con gli occhi sbarrati, fissi alle stelle, come i morti. Un attimo primo che Tibor calasse su di lui la mazza assassina, rotolò lontano. Poi, con un salto da tigre, si aggrappò alle spalle del gigante che fuggiva nel buio e con la baionetta che si trovò tra le mani colpì all’impazzata. Tibor aveva lanciato un urlo, ma era riuscito a scrollarsi di dosso quella furia e prima di sparire nelle tenebre, aveva calato un colpo di mazza sul suo assalitore, che era caduto a terra con il braccio ferito e sanguinante. “El cope”, sibilò fra i denti il bersagliere, tagliando in diagonale il vigneto. Era sicuro che Tibor non ce l’aveva fatta a ripassare il Piave; era ferito, magari in modo leggero, ma ferito. “El cope, ’sassin!”, ripetè basso. Un colpo di fucile sibilò poco sopra la sua testa. Dall’altra parte del Piave, il nemico lo aveva visto e ne seguiva i movimenti.
Il bersagliere si buttò a terra e strisciò fino ad un grande fascio di canne immobili nell’aria ferma e tersa di quella mattinata primaverile. Sull’erba ed a un palmo dal suo naso, c’era del sangue, il sangue di Tibor. Questi non poteva che essersi nascosto fra le rovine della casa colonica là vicino. Ora il bersagliere era coperto dalla cortina delle canne. Si alzò e corse verso la casa e là, fra un gran ciuffo di ortiche ed il muro diroccato, giaceva Tibor, steso sul gomito, con la giubba grigia macchiata di sangue. Vide il bersagliere avanzare verso di lui e fu come scorgesse la morte. "Camerata ’talian, no coparme. No mazar Tibor". Il bersagliere non disse nulla. Si fece largo fra le ortiche; come nuotando e con le sue mani afferrò per il bavero l’ungherese, che si sollevò a sedere con una smorfia. I due nemici si guardarono negli occhi per un momento che fu un’eternità. Poi il bersagliere trasse la baionetta e colpì con furia, tante volte ed ancora, finché Tibor non si allungò inerte ai piedi del muro, gli occhi stralunati, trascinando il bersagliere sopra di sé. Sui mattoni, un palmo sopra si infrangevano rabbiosamente, le fucilate che provenivano fitte dal nemico sull’altra sponda del Piave. Il bersagliere rimase a lungo steso sull’ampio petto del gigantesco ungherese, che non avrebbe più passato le linee e fatto strage dei suoi amici. Si sentiva come avesse il cervello ed i polmoni pieni di carboni ardenti. Infine, quando il sole era ormai già alto sopra le cime dei pioppi che crescevano sulle opposte sponde del fiume, tornò completamente in sé. Sobbalzò. Qualcosa ticchettava sotto la giubba di Tibor, proprio all’altezza del cuore. Senza sapere come, si ritrovò fra le mani un bel orologio d’oro da taschino. Se lo cacciò in tasca e con un balzo fu al di là del muro diroccato, dalla parte delle nostre linee. Quel bersagliere si chiamava Pietro Martino Carrozzani. Ha avuto una lunga vita felice ed operosa. Quando spesso gli accadeva di pensare ai compagni morti a vent’anni sul San Michele e sul Piave, portava la mano destra al taschino del panciotto, dove teneva l’orologio di Tibor, che ancora funzionava.»
 

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news pubblicata il mer 09 dic 15