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1917 - 1918 Racconti di Guerra

gio 17 dic 15

EPISODI DI ORDINARIO EROISMO: RUGGERO LORENZON E NELLO PAVAN


«La guerra è fitta di episodi, alcuni dei quali possono essere considerati di puro eroismo, anche se i fatti non sempre hanno trovato riscontro con le ricompense che si sarebbero meritati e che, trattandosi di storia minore, non sono mai apparsi nelle pubblicazioni ufficiali della vastissima letteratura relativa al primo conflitto mondiale.» Così scrive Ulderico Bernardi, scrittore, sociologo e accademico giornalista italiano nonché professore ordinario presso la Facoltà di Economia e Commercio dell’Università Ca’ Foscari di Venezia, nel suo libro “Di qua e di là dal Piave” edito da Mursia, riferendosi a quanto occorso a due giovani abitanti di Negrisia di Ponte di Piave: Ruggero Lorenzon e Nello Pavan. La seguente storia riguarda una testimonianza raccolta dall’autore il 12 maggio 1988 dalla viva voce di Angelo Pavan (classe 1905), fratello di uno dei due protagonisti, entrambi scomparsi, e che mi permetto di trasferire ai lettori di questa rubrica rispettando fedelmente il racconto dello scrittore, sicuramente molto più abile di me nel descrivere i fatti di quei giorni lontani, anche se attraverso il racconto di interposta persona:
«Abitavamo a Negrisia. L’approssimarsi della catastrofe c’era stato segnalato da pattuglie di carabinieri a cavallo che seguivano le truppe in ritirata, e si occupavano di avvertire la popolazione di ciò che stava accadendo. A quell’epoca avevo 12 anni, ma il ricordo di quei giorni è ancora lucidissimo nella mia memoria e mi accompagna spesso, perché ho vissuto tutta la mia vita nei luoghi dove sono nato.»
«Guardandomi in giro, ogni giorno, vedo attorno a me le case, gli alberi, i campanili, e le chiese tutti ricostruiti dopo la grande bufera iniziata nel novembre del ‘17 e conclusa molti anni dopo la fine della guerra, quando, con immensi sacrifici, riuscimmo a riedificare i nostri paesi ed a ripopolare le contrade abbandonate. La mia famiglia era molto numerosa. Poiché avevamo il nonno che abitava in una zona abbastanza arretrata rispetto al Piave (Faè di Oderzo), decidemmo di trasferirci e di aspettare migliori eventi per far ritorno nella casa di Negrisia. Mia madre mi consegnò una giovane vacca e mi mandò avanti dicendomi che ci saremmo ritrovati dagli zii: di non aver paura e di seguire i viottoli discosti dalla strada maestra per non fare cattivi incontri: così feci. Giunto a metà strada, all’altezza di un bivio che ero costretto ad attraversare, incontrai un ufficiale italiano a cavallo che dava degli ordini ad alcuni soldati affaccendati attorno ad un grande carro. “Dove vai?” mi disse. “A Faè” gli risposi. “Vado a Faè a portare questa vacca a mio zio”. “E non hai paura?”. “No” gli dissi “Perché dovrei aver paura?”. “Bravo” mi rispose, e mi mise in mano una grande pagnotta che aveva un tale profumo che ancora adesso qualche volta me lo sento sotto il naso. Ringraziai e subito ripresi la mia strada, inoltrandomi nella campagna con la vacca attaccata alla corda in una mano e l’altra alle prese con questa grande pagnotta che incominciai a sgranocchiare subito, finendo di mangiarla quando finalmente arrivai a Faè nella casa di questo mio nonno che si chiamava Angelo Bonato e faceva il mugnaio. Lì mi raggiunse, nello stesso giorno, tutta la nostra famiglia, e da loro seppi che anche gli altri abitanti del nostro borgo erano stati mandati via perché si diceva che il fronte si sarebbe fermato, proprio davanti a noi, oltre il Piave.»
«Restammo dal nonno per qualche tempo, non ricordo quanto, ma fummo saccheggiati e spogliati di tutto dagli austriaci e dagli ungheresi che si erano accampati a Villa Benvenisti di Colfrancui e venivano da noi ogni giorno in cerca di bottino. Sempre ubriachi e smaniosi di rubare tutto ciò che riuscivano a prendere: polli, galline, vitelli, vacche, vuoi, farina, vino, grano; insomma le cose che ogni famiglia si era portata via da casa e sarebbero dovute servire al nostro sostentamento per tutto l’inverno. Vicino alla nostra casa abitavano altre famiglie del paese, tra cui un ragazzo, coetaneo di mio fratello Luigi, che si chiamava Ruggero Lorenzon ed aveva già 18 anni. Un po’ per la loro età, un po’ per il fatto che tutti e due avevano uno spirito avventuroso, stavano fuori casa tutto il giorno e andavano vagabondando nella campagna spingendosi fin verso Negrisia per vedere come stavano le cose nel nostro paese e se la casa che avevamo abbandonato era stata occupata dai soldati intanto, prendevano nota delle postazioni dei cannoni, della dislocazione dei militari, dei depositi di materiale bellico e di tutto il resto. Mia madre, spaventatissima, scongiurava mio fratello di non mettersi in mostra perché temeva che, se lo avessero fermato, sarebbe stato mandato prigioniero in Austria. Ma Nello era un essere indipendente e sentiva, più di tutti, il peso di questa nostra prigionia ed il desiderio di riacquistare la libertà.»
«Un giorno verso il 10-12 febbraio, ci venne dato l’ordine di arretrare di circa 10 km dalla zona di Faè. Allora assieme agli altri abitanti di Negrisia, ci incamminammo con le nostre poche cose (la vacchetta era finita nelle pance degli ungheresi) dirigendoci Navolè, quasi sulla sponda destra della Livenza, arrivando infine nella casa di altri parenti che coltivavano una grande campagna e potevano ospitarci. Eravamo sessantaquattro persone e ci furono assegnati circa cinquanta campi da riprendere in mano e da preparare per le semini di granoturco e degli altri prodotti che avremmo potuto ricavare per la grande fame di tutti. In quel paese, per la verità, eravamo lasciati in pace abbastanza. Avevamo un’altra vacca, alcune galline, il maiale, e la farina per la polenta per fortuna non mancava. Mia nonna era la capo cucina. Si faceva una mensa unica: noi ragazzi andavamo per i campi a mettere trappole per gli uccelli ed a procurare radicchi selvatici che portavamo a casa tutte le sere consegnandoli alle donne. Qualche volta vedevamo degli austriaci, ma oramai la grande tempesta delle requisizioni era finita e, quando venivano, si accontentavano di qualche uovo e magari di un pollo. Mia nonna raccomandava a tutti di assecondarli, e così li invitava a mangiare anche la nostra polenta e a dividere con noi quel poco che avevamo. Mio fratello Nello e Ruggero Lorenzon erano sempre insieme. Parlavano, scrivevano carte, si allontanavano da casa con la scusa di andare a corpo, a Motta di Livenza o nei pressi dell’aeroporto del “Pra dei Gai” di Portobuffolè, per vedere gli aeroplani con la croce nera sulle ali. Finalmente una sera non tornarono più. Era già all’inizio dell’estate e le giornate erano diventate lunghe e calde. Ci si accorse della loro fuga solo il giorno dopo, e mia nonna consolava mia madre, dicendole che sarebbero tornati come avevano fatto sempre. Invece li rivedemmo soltanto a guerra finita. Qualcuno di casa pensava che fossero andati in Friuli, a Martignacco, per trovare gli altri profughi di Negrisia che, col nostro parroco, avevano abbandonato il paese dopo di noi. Qualcun altro pensava che fossero incappati in un’imboscata della gendarmeria e fatti prigionieri. Insomma ci rassegnammo.»
«Ruggero Lorenzon e Nello Pavan avevano invece preso la decisione di attraversare le linee e di unirsi al nostro esercito per combattere. Un’impresa impossibile, tanto difficile da essere considerata disperata. Non solo per l’improbabilità del passaggio attraverso lo schieramento armato che occupava la riva sinistra del Piave, quanto per il fatto che Ruggero Lorenzon non sapeva nuotare e, per quanti sforzi avessero fatto insieme sulla Livenza cercando di superare questa difficoltà, non vi erano riusciti. Ma un’altra ragione spingeva il giovane Lorenzon a questa disperata avventura. La speranza di riabbracciare i suoi genitori che erano stati “dirottati” oltre il Piave, ed avevano certamente raggiunto alcuni loro parenti che vivevano a Bologna.»
Ma la storia che inizia da qui in poi, continueremo a raccontarvela nella prossima puntata di queste cronache della Grande Guerra……

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news pubblicata il gio 17 dic 15