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1917-1918 RACCONTI DI GUERRA
Episodi di ordinario eroismo: segue Ruggero Lorenzon e Nello Pavan
Riprendiamo il racconto iniziato nella cronaca precedente, tratto integralmente dal libro “Di qua e di là del Piave” di Ulderico Bernardi, e basato su una testimonianza raccolta dallo scrittore il 12 maggio 1988 dalla viva voce di Angelo Pavan (classe 1905), fratello di Nello Pavan, uno dei protagonisti, entrambi scomparsi:
«Insomma andarono avanti con la forza dell’entusiasmo e della incosciente illogicità dei ragazzi che spesso, riesce a portare a felice conclusione le imprese disperate. Camminarono di notte per le strade di campagna che conoscevano alla perfezione e puntarono dritti su Oderzo. Superarono Colfrancui con una certa difficoltà a causa della presenza di un Draken-Ballon (Tradotto letteralmente dal tedesco: pallone-drago. Si trattava di palloni aerostatici ancorati al suolo ed utilizzati dagli austriaci come osservatori aerei) sistemato in un passaggio obbligato per il loro percorso. Presero nota di quella postazione, del numero di soldati e di attrezzature che stavano attorno all’aerostato, e proseguirono facendo un lungo giro. Attraversarono il canale Bidoggia nei pressi di Fossadelle di Negrisia e si trovarono prestissimo a contatto con i primi reticolati che delimitavano l’inizio della golena del fiume. Strada facendo avevano preso nota continuamente delle postazioni di artiglieria individuate sotto i mascheramenti, e dei depositi di munizioni distribuiti lungo tutto il percorso della strada che da Faè porta a Negrisia. Notizie che sarebbero state preziose ai comandi militari italiani. Andarono ancora avanti, oltre il piccolo fiume Grassaga, risalendolo per un lungo tratto. Poi si arrestarono sotto l’erba altissima e ci rimasero per un lungo tempo anche per tirare il fiato, dopo un percorso così lungo, fatto nell’agitazione e nella paura di essere catturati.»
«Ci mancò poco che ciò non avvenisse quando, rialzatisi dal loro nascondiglio, si trovarono di fronte a due sentinelle bosniache che volevano sapere cosa facessero li, in zona di guerra. Allora, Ruggero Lorenzon, con grande prontezza di spirito, disse che erano venuti in cerca del suo vecchio padre e, piangendo, fece intravedere che volevano scoprire se era ancora vivo o morto nella casa che egli non aveva voluto abbandonare. Fu il loro primo colpo di fortuna. I soldati slavi non avevano certamente la sprezzante durezza degli austriaci e, convinti dalle lacrime del ragazzo, li cacciarono via senza far loro del male. Quindi i due si spostarono con molta circospezione annotando puntualmente i nidi di mitragliatrici, le trincee ed i luoghi delle fortificazioni nemiche. Attesero pazientemente dentro ad un fosso che si presentasse loro l’occasione di superare il canale Negrisia.»
«Lo fecero nel momento in cui i soldati stavano consumando il rancio, portandosi così di fronte al secondo argine del Piave. Il terreno era disseminato di bombe inesplose, di cadaveri in putrefazione, di reticolati e di materiale d’ogni genere. La vegetazione incolta era molto fitta; ne approfittarono a portandosi dentro ad una buca di granata proprio nei pressi di una postazione telefonica avanzata, dalla quale due soldati trasmettevano informazioni ad intervalli uguali. Forse fecero un movimento falso o forse il caso volle che, dentro il fitto della vegetazione, si fosse mosso qualcosa. Fatto sta che, dalla parte italiana, cominciarono a piovere bombe e raffiche di mitragliatrice, alle quali gli avversari risposero con un fuoco di sbarramento ancora più fitto, i due ragazzi stavano dentro alla loro buca con il sole a picco sulla testa ed una sete che superava la paura della morte. Ebbero l’accortezza di non fiatare. Mentre con gli occhi dilatati dal terrore guardavano la pioggia di fuoco che si scatenava attorno e sentivano fischiare rabbiosamente i proiettili sopra le loro teste. Dopo ore di attesa e di paura, sentirono ancora la voce dei telefonisti gracchiare dentro l’apparecchio, forse per chiedere aiuto, poiché anch’essi erano nella identica situazione di pericolo. Evidentemente ricevettero l’ordine di retrocedere e i nostri due, subito dopo, si buttarono in avanti.»
«Erano passate forse cinque o sei ore e la sete continuava ad attanagliare i due fuggiaschi, ormai in condizione di non poter più tornare indietro ma solo di procedere verso l’altra riva. Il sole stava tramontando in direzione delle linee italiane dove si intravedevano gli osservatori e le feritoie delle trincee. Aspettarono ancora e poi si buttarono in una seconda fossa, dove giacevano ammucchiati corpi di soldati in putrefazione, semi sommersi in una lurida pozza d’acqua. I due si inumidirono le labbra, noncuranti del pericolo che ciò rappresentava. Da quel momento cominciò la fase cruciale della loro impresa. Sapevano che sarebbero riusciti, pur comprendendo l’enorme rischio che avrebbero corso ed il pericolo che l’acqua profonda del terzo braccio del fiume rappresentava per Ruggero Lorenzon, incapace di tenersi a galla. Il buio della notte era intanto rotto da una serie di razzi che, da una parte all’altra del fiume, venivano lanciati dalle opposte linee. Staccando alcune frasche e ramaglie di cespugli che circondavano il loro nascondiglio, se le legarono addosso mascherandosi completamente. Poi, confondendosi con le erbe che il fiume trascinava nella corrente, si gettarono nel fiume l’uno abbracciato all’altro, superando il secondo braccio d’acqua poco profondo: così raggiunsero un isolotto di ghiaia che li separava ancora di qualche metro dalla riva destra. Improvvisamente un razzo illuminò la scena e furono scoperti. Cominciò allora una doppia sequela di raffiche di mitragliatrice che giungevano da destra e da sinistra. I due ragazzi, riparati dietro ad un tronco d’albero, urlavano rivolti alle nostre trincee che erano fuggiaschi e che i nostri li lasciassero vivere. Parve che il destino fosse in loro favore perché ancora una volta, non si sa come, uscirono indenni da quest’ultima prova. Quando il fuoco si placò, cercarono un guado il più stretto possibile, risalirono il fiume inciampando nelle salme insepolte dei soldati dei due eserciti e negli innumerevoli ostacoli disseminati lungo quest’isola di morte diventata terra di nessuno. Nel buio ebbero, la sensazione che il braccio d’acqua che stava loro di fronte, pur profondo, si sarebbe potuto attraversare senza grandi difficoltà. Entrarono in acqua e Nello Pavan sorresse l’amico tenendolo per i capelli mentre gridavano a gran voce alle vedette: “Non sparate per amor di Dio!”.»
«Per otto volte Ruggero fu travolto dalla violenza della corrente, e per altrettante fu ripescato permettendogli di respirare. Toccarono al fine terra e fu come se fossero improvvisamente rinati. Finirono nelle braccia di un mitragliere del 280º fanteria che, vedendoli arrivare, non credette ai propri occhi e se li strinse al petto come se fossero dei figli. Si accaciarono sull’erba sfiniti e, dopo un po’, furono condotti al comando di reggimento nei pressi di Candelú. Ruggero e Nello, rifocillati e vestiti, furono messi a disposizione del comando della 3ª armata, a Zenson di Piave, dove dettero notizie dettagliate sulle osservazioni compiute durante la loro impresa all’ufficio informazioni diretto dall’allora colonnello Ettore Smaniotto; le notizie da loro apportate si trasformarono in preziose direttive alle forze terrestri ed aeree che, nei giorni seguenti, operarono durissimi interventi sugli obiettivi militari indicati dai due giovani. Non vi furono medaglie ne incontri ufficiali per i due giovani valorosi; come 1000 altre pagine di gloria scritte dalla gente del popolo, anche questa sarebbe rimasta nell’oblio, se non avesse provveduto a tenerne vivo il ricordo la memoria della tradizione orale, e le scarse notizie apparse nei giornali dell’epoca completate dalle preziose note storiche di Monsignor Chimenton.»
Lo stesso Monsignor Chimenton ricorda come “Il Gazzettino” ed “Il resto del Carlino” del 3 agosto 1918 scrissero che: «Lorenzon Ruggero, di 18 anni, figlio di agiati possidenti profughi a Borgo Panigale, e Pavan Nello, di anni 17, mugnaio, entrambi di Negrisia di Ponte di Piave, sono pieni di ardimento e sentono forte il culto alla patria e alla libertà.» Ma a parte questo il loro gesto di eroismo rimase quasi sconosciuto poiché il colonnello Smaniotto promise alla Lorenzon ed al Pavan un’alta ricompensa al valor militare, ma lo stesso colonnello mori poco dopo la partenza da Spinea di Mestre dei due ragazzi, e la pratica rimase incagliata. Sembra che al Ministero della Guerra si presentò istanza perché la promessa dell’illustre colonnello fosse mantenuta, ma ciò non bastò a smuoverla dagli archivi di Stato ove probabilmente giace ancora sepolta.