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Le vicissitudini del parroco Don Pietro Sartor
In antitesi alle strategie militari ed agli avvenimenti che stavano delineando le sorti della Prima Guerra Mondiale, faceva da contrapposizione la vita di tutti i giorni di coloro che non erano non impegnati al fronte. Soprattutto donne, che nella loro veste di madri, figlie o nuore, dovevano occuparsi in primo luogo del cibo da mettere in tavola. A questo proposito riportiamo un estratto dal libro di Renzo Toffoli: 1917-1918 Un anno di invasione e di soprusi, nel quale l’autore racconta le vicissitudini del parroco di Salgareda (Don Pietro Sartor) profugo a Fossalta Maggiore e Cavalier. Il titolo dell’episodio è: madri affamate.
«La mattina del 17 agosto una commissione di donne proterve e irose si presenta, imprecando a me, dicendomi che se non sapevo fare il mio mestiere, non dovevo accettare la carica di Bürgermeister (Sindaco). “Care le mie donne – rispondo – ho accettato, perché mi è cara la vita: o sindaco, o fucilazione. Sarei stato il quarto, in otto mesi, ad essere passato per le armi.” “Tutti hanno ricevuto farina di frumento – gridano inviperite quelle poverette – solo noi di Cavalier non abbiamo ricevuto niente.” “Una volta, sì, ce ne fu data – soggiungono alcune – ma che cos’era mai? Una presa di tabacco da fiuto e basta. E poi non ce ne hanno più data.” “Sentite, care donne – rispondo cercando di tranquillizzarle – andate voi stesse a protestare dall’autorità incaricata degli approvvigionamenti alla popolazione.” “Sì – gridano in coro quelle mamme – andremo noi. Lei ci conduca dal capitano dei civili.” Costui, dopo aver sentito le buoni ragioni di quelle mamme, rilascia il permesso scritto dicendo: “Andate dal Generale, a Piavon di Oderzo, nel palazzo Rechsteiner.”
Partiamo. Sono costretto ad accompagnarle. Che confusione! Che vociare, misto a frequenti parolacce in dialetto veneto per la strada! Arrivati alla villa Rechsteiner, facciamo un’ora e mezza di anticamera. In attesa di essere ricevuti, le donne chiacchierano sottovoce, perché ci sono, là dentro, quattro sentinelle, con un muso così, e altri civili, che aspettano il loro turno per parlare con il Generale: ha un aspetto da orso, tanto che pare voglia sbranarci; due occhiacci cattivi, inespressivi, da barbagianni. Parlando mezzo in francese e mezzo in tedesco, presento quelle povere donne. Viene l’interprete, che domanda a me che cosa voglio dal Generale. Allora parla, per prima, Rosa Perino: “Abbiamo i figli che muoiono di fame. Ora che avete raccolto il nostro frumento, vi preghiamo di passarcene qualche cosa.” “Il frumento è nostro, se volete mangiare andate da Cadorna!” La donna, in una lingua sciolta, esasperata dalla fame, ribatte: “Ci apra la porta e noi andremo subito da Cadorna.” “Senta, signor Generale – salta su un’altra – se anche lei avesse dei figli che gridano di fame, se anche lei fosse morto di fame, come noi…!” Con un sorriso di finta compassione, il Generale, sempre per mezzo del suo dolmetschen (interprete), la interrompe: “Non credo che le donne italiane abbiano fame, finché non vedrò una madre mangiare il proprio figlio.”
Le donne, già maldisposte e arrabbiate prima del colloquio, ora, offese crudelmente dal cinismo beffardo, sprezzante e dall’animo crudele del generale, a sentire queste espressioni barbare e atroci, impallidiscono, diventano livide, tanto che sembrano delle ossesse. La Perino si slancia contro il Generale, che non fa in tempo a mettere la mano alla rivoltella, gli graffia il viso e gli morde le mani e le braccia. Nasce un parapiglia.
Riesco a uscire dalla stanza. Le guardie afferrano quelle meschine e le cacciano in una stanza vicina, adibita a prigione. Il palazzo è tutto in subbuglio. Le donne urlano, insultano: “Lasciateci andare, maiali, porci, morti di fame, senza camicia, lazzaroni! Volete fare la guerra e non avete neanche le scarpe!” Un capitano Boemo mi scorge, sotto il portico della villa, e mi dice trasecolato: “Ma quelle là sono diventate pazze! È meglio lasciarle andare… Senta, reverendo, si prende lei l’impegno di ricondurle a casa?” “Sì purché mi diate uno di quei bastoni che, voialtri signori ufficiali, usate per far rigare dritta la gente.” Con questo volevo fargli capire che quelle poverette erano proprio impazzite per la fame. Mi viene offerto un caffé – chiamiamolo così – con un po’ di rhum che, data la mia estrema debolezza, mi fa sempre ridere.
Alle donne, avendo io provato l’effetto del rhum, faccio dare solo caffé. Una di esse, acquietatasi, lo accetta subito, ma le altre, no, e gridano: “Dateci farina, invece che intrugli di foglie decotte!”
Legate con due catene da carcerati, a due a due, accompagnate da un sergente e quattro gendarmi, escono dalla villa Rechsteiner. Io, con il mio bastone da … pastore, le seguo in coda. Si attraversa il paese di Piavon e tutti sono fuori a curiosare. Scherzando, faccio un po’ lo spavaldo con quel bastone tra le mani e, randellando, vado dicendo ad alta voce: “Su, su, svelte, donne, svelte! In riga! Testa alta! Non voltatevi indietro! … Camminare, camminare … a passi lunghi e ben distesi! … Un … dué! Un … dué!” Le donne, anch’esse, ridono e commentano: “Senti, senti el Piovàn che el fa da caporal!”
Entrati nel territorio della parrocchia, prego il sergente di slegare quelle povere donne. Dopo parecchi: “Sì, sì … aspetti! … Ancora un po’!” Finalmente si rassegna a togliere le catene a quelle infelici, allora i gendarmi tornano indietro. La mattina dopo mi giunge un quintale e mezzo di farina di frumento (il primo e anche l’ultimo), da distribuire a quelle povere mamme. Pensavo dovesse succedere qualche disordine in paese, anzi prevedevo qualche rappresaglia tedesca, invece la cosa finì lì, per i civili, ma non per me. Infatti, il sergente austriaco – una vera canaglia – mi fa rapporto al Comando militare. Quattro giorni dopo sono chiamato a Chiarano al Comando militare d’Armata e accusato come ladro. Ladro io? E di che cosa? Sono allibito! Mi presento al Comando Austriaco, mostro l’ordine di convocazione e subito vengo introdotto alla presenza di un colonnello, alto come un pino e con la caramella all’occhio destro. Mi chiede dove avessi preso quel bastone … militare e quale uso intendessi farne, soprattutto accompagnando – diceva lui – squadre di donne sempre pronte alla rapina. Narro tutta la storia dolorosa, tragica di quelle povere mamme, ma egli non mi crede e vuole sbattermi in prigione. “Senta signor Colonnello, lei può chiamare qui il parroco di Chiarano a testimoniare che quanto le ho esposto è la pura e semplice verità.” L’arciprete di Chiarano viene immediatamente fatto venire alla presenza di quel filibustiere, che conosce molto bene, e così può salvarmi. Ritorno a Cavalier più morto che vivo e –il Signore mi perdoni – mandando un mucchio d’insolenze a quello spilungone burbanzoso.»