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Estate - Autunno del 1918

lun 20 giu 16

Notizie dei profughi in quel di Pavia Udinese e Terrenzano


Per i nostri concittadini prigionieri a Pavia Udinese in quel periodo fu necessario usare tutti i mezzi a disposizione non solo per riuscire a procurarsi il cibo quotidiano, ma anche per instaurare una convivenza pacifica con le autorità austriache sempre diffidenti e sospettose. Don Zanetti svolse sempre con abnegazione ed abilità il ruolo di intermediario fra i profughi e le locali autorità civili e militari; forse qualche volta ottenne poco o nulla, ma spese sempre e comunque tutte le sue forze, e non esitò ad umiliarsi di fronte a qualunque interlocutore, pur di procurare il pane alla sua gente. Lo spauracchio della fame infatti si stava palesando in tutta la sua drammaticità con i primi morti di inedia, e Don Zanetti era talmente preoccupato da scrivere che: «Se la guerra si fosse prolungata ancora qualche mese, non so come la sarebbe finita per noi!»
D’altronde le condizioni degli invasori non erano molto diverse, infatti se la carenza di cibo cominciava a mietere vittime fra i profughi, dopo la battaglia di giugno gli asburgici erano ridotti in condizioni ancor più compassionevoli; nell’esercito cominciarono a manifestarsi episodi di defezione e di rivolta, dovuti ad un senso di stanchezza ed all’idea che il loro governo li stesse abbandonando ad un miserevole futuro. La sola differenza che caratterizzava i prigionieri italiani dai soldati austriaci, era costituita dal fatto che mentre i primi cercavano di utilizzare tutti i mezzi, l’industriosità e molto spesso anche la furbizia, per procurarsi il cibo e nasconderlo, i secondi, negli ultimi mesi si lasciarono andare ad atti di inaudita violenza per placare i morsi della fame.
In quel tempo Don Zanetti si recava settimanalmente fino ad Udine per consegnare e ritirare la posta, operazione importantissima poiché costituiva anche l’unico mezzo di comunicazione possibile fra coloro che si trovavano in profuganza, ed i familiari e amici che invece si trovavano al fronte come soldati, oppure che erano rimasti vicino alla linea del Piave. Oltre al beneficio di poter utilizzare la bicicletta, questo viaggio rappresentava per il parroco anche la possibilità di mettersi in contatto con i suoi confratelli, dai quali poteva avere notizie sull’andamento del conflitto.
Infatti fu proprio durante una di queste escursioni che egli poté intendere dell’esito positivo della battaglia del Solstizio e della vittoriosa avanzata dell’esercito italiano durante il successivo mese di ottobre, anche se mai si sarebbe aspettato quello che avvenne il 30 ottobre, ma lasciamolo raccontare dalle vive parole di Monsignor Chimenton: «Don Zanetti si presentò all’ufficio postale di Udine, per ritirare la solita corrispondenza dei suoi profughi. Caso strano, l’ufficio postale era chiuso: dinanzi all’uscio attendevano con un sorriso insolito, le signorine impiegate: «Oh! Don Zanetti, dove va oggi? Torni a casa! Siamo liberi presto anche noi! Ponte di Piave è libero! I nostri hanno sfondato le ultime linee di resistenza! Domani saranno qui i nostri soldati!» Don Zanetti credette di sognare; poi si mostrò un po’ incivile, non salutò, borbottò poche parole, strinse alcune mani in modo stranamente espansivo, inforcò la bicicletta, impaziente di portarsi a Pavia per annunziare ai suoi profughi il fausto avvenimento. Il povero prete non sapeva dove andasse. Batté in un mucchio di cocci e le gomme scoppiarono; ma il corridore non si arrestò: in certi momenti si viaggia anche in cattivo arnese, e poco importava, in quel momento, rovinare interamente una bicicletta. Entrato in Pavia Udinese si imbatte in Ampelio Fuser di Ponte di Piave: “Siamo liberi!” gridò il prete. I due caddero, piangendo, fra le braccia l’uno dell’altro: erano circa 12 mesi che aspettavano quell’abbraccio! Un gruppo di ufficiali austriaci appiedati, presso la caserma, osservò quella scena e sorrise di compiacenza: erano ufficiali che sapevano terminata una guerra che, forse, non avevano mai approvata.» Il primo giorno di novembre furono fatti passare per Pavia i disertori che attendevano il loro turno di inchiesta e di giudizio. Il giorno 2 novembre tutto il paese era ormai sgombro dal nemico, e la bandiera italiana garriva al vento, baciata dalla vittoria.»
Le cose non andarono molto diversamente a Terrenzano dove erano internati i profughi di Negrisia, racconta infatti Monsignor Chimenton: «La sconfitta del giugno 1918 sconcertò il nemico: prima tanta baldanza, suoni, canti e festini; poi non più baldorie, non più musiche di feste, ma avvilimento e confusione. La vittoria invece sollevò l’animo dei nostri profughi concentrati in Terrenzano, che videro in essa la mano della Provvidenza, che aveva benedetta l’Italia e ascoltate le preghiere di tanti disgraziati. Le autorità militari constatarono questo nuovo entusiasmo del nostro popolo: se prima della battaglia di giugno il popolo soffriva e taceva, dopo quella sconfitta il popolo si angariava in tutti i modi, ma non si poté più dominare. Un tale stato d’animo si accentuò negli ultimi giorni di settembre e nei primi giorni di ottobre, quando l’esercito austroungarico, in previsione di un’azione travolgente dei nostri, si mise sulle difese per sostenere l’assalto. Le voci di un’avanzata, o meglio di una nuova azione in grande stile, da parte dei nostri non era un mistero per gli ufficiali e per i soldati austro-germanici. Gli spostamenti dell’artiglieria e le continue spedizioni verso il Piave assicurarono i nostri profughi che se l’Italia non avesse iniziato l’offensiva, questa, non si sa con quale esito, si sarebbe iniziata da parte del nemico. A questa opinione si giunse in Terrenzano dalle confessioni degli stessi combattenti e dei nostri prigionieri provenienti dal Piave.»
Prosegue Chimenton: «Incuteva compassione il vedere gli austriaci partire per il Piave! Il Piave incuteva spavento; da tutti si diceva che non si sarebbe più tornati indietro!; L’unica frase che si ripeteva a chi si avvicinava quei partenti, era questa: «Brutta Piave! Cattiva Piave! Piave caput!»; Quei partenti sentivano che questa volta il Piave sarebbe stato una tomba ancor più fatale di quello che non fosse stata nel mese di giugno! Al contrario il nostro popolo, in quelle ultime giornate di prigionia, aveva lo spirito sempre più sollevato; sentiva che la schiavitù stava ormai per finire, e pregustava la liberazione.» Da lì in poi, infatti per gli austriaci gli avvenimenti precipitarono ed il 26 ottobre cominciò l’offensiva finale: «I cannoni tuonavano quasi furie indemoniato e davano l’impressione di quei terribili uragani, che, preceduti prima da cupo, sordo, lontano rumoreggiare che va sempre più crescendo, si hanno qualche volta nella stagione di estate dopo una lunga siccità. Il giorno 28 ottobre passarono per Terrenzano i primi feriti austriaci provenienti dalle linee di combattimento. Da poche espressioni confuse e sconnesse, si comprese che le cose andavano male per l’Austria, e che al nemico non restava che una fuga precipitosa. I cuori dei nostri profughi, del nostro popolo, respirarono un’aria di libertà non gustata da parecchie mesi.»
«La notte del 3 novembre, notte precedente il primo arrivo dei nostri soldati, non si dormi in Terrenzano, non ancora sgombero di austriaci; si pregò fino ad ora tarda in chiesa, e poi si attese, con impazienza, per le case e sulla pubblica piazza. Un colonnello di Stato maggiore austriaco, raccolse nella piazza di Terrenzano, a tarda notte, i suoi ufficiali, che guardavano sulle carte militari le varie posizioni per rendersi conto dell’avanzata delle armi italiane. In seguito a nuove informazioni, portate da un gendarme ansante trafelato, esclamò: «Se è così siamo ormai circondati da tutte le parti!» E impartì immediatamente l’ordine della ritirata che si effettuò per la via di Risano. Circostanza degna di nota: dietro le artiglierie che prendevano la via del ritorno, due ufficiali di cavalleria e una ventina di soldati austriaci stavano attendendo il momento per darsi in mano ai comandanti del nostro esercito.»
«Un ufficiale ungherese a cavallo, prima di partire, disse a Don Lanzarini sulla piazza di Terrenzano: «Ce ne andiamo!;  Ora siete liberi, perché i vostri sono vicinissimi!» E Don lanzarini a lui: «È ora! Fate pure buon viaggio! Che anche voi ungheresi possiate presto essere liberi!» Un capitano austriaco, piangendo, pregò Don Lanzarini di ospitarlo in canonica, e di consegnarlo alle autorità militari italiane; dichiarò di non aver mai fatto del male a nessuno e di aver sempre apprezzato il popolo e l’esercito italiano. Don Lanzarini confortò quel capitano che invocò il nome della sposa e dei bambini lontani, ma si dichiarò spiacente di non poter accondiscendere alla sua preghiera: non volle, non poté assumere una responsabilità di fronte al nostro esercito che procedeva a gran passi vittorioso; unicamente lo esortò a fare affidamento sulla nobiltà d’animo e sulla gentilezza dei nostri ufficiali. E quel capitano si allontanò ringraziando della parola di conforto ricevuta, e raccomandando, per mezzo del sacerdote, alle preghiere dei buoni, tutta la sua famiglia. »

grande guerra

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news pubblicata il lun 20 giu 16