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Con una recente sentenza (n.213/2016) la Corte Costituzionale ha riconosciuto ad una convivente il diritto a beneficiare dei permessi mensili della legge 104 del 1992 per assistere il compagno gravemente disabile.
Cosa dice la Legge
La norma riconosce al lavoratore dipendente, che assiste un familiare con handicap grave, il diritto a fruire di tre giorni di permesso mensile retribuiti. La platea dei beneficiari è circoscritta al coniuge, ai parenti ed affini entro il secondo grado. Solo in particolari condizioni di difficoltà o impossibilità per il coniuge o i genitori di prestare assistenza, l’agevolazione può essere estesa ai parenti o affini di terzo grado.
L’intento della legge è quello di garantire la tutela della salute psico-fisica della soggetto disabile all’interno del suo contesto familiare ed affettivo, agevolando la solidarietà ed il lavoro di cura delle persone care e più prossime.
La sentenza della Corte Costituzionale
La Corte ha ritenuto irragionevole, e quindi contraria all’art. 3 della Costituzione, che l’elencazione dei soggetti legittimati a fruire dei permessi non comprenda il convivente more uxorio. Ciò, non tanto per ragioni di pretesa equiparazione tra matrimonio e convivenza di cui, anzi, il giudice conferma le differenze di status e disciplina.
Piuttosto, l’esclusione del convivente limita la persona disabile nel suo diritto di poter beneficiare della piena ed effettiva assistenza di una persona vicina, membro di una comunità di affetti e solidarietà che lei stessa ha contribuito a creare e che è piena espressione della sua personalità. Comunità di affetti, non assimilabile alla famiglia in senso tradizionale, che comunque la Carta riconosce e tutela come formazione sociale idonea a consentire e favorire il libero sviluppo della persona – specie se disabile – nella vita di relazione.
L’esclusione del convivente è illegittima
La limitazione contenuta nell’art.33 comma 3 della Legge 104 è, dunque, illegittima perché sacrifica il diritto – costituzionalmente garantito – del soggetto disabile a ricevere assistenza nell’ambito della sua comunità di vita in ragione di un mero dato normativo (parentela, affinità o coniugio) a discapito della relazioni affettive in cui si esprime pienamente la sua personalità.